Il club del27, come ormai sapranno anche le pietre, nasce per riportare nuovamente agli
onori della cronaca quelle ricette che ruotano intorno alle sfide dell’MTC, che
ne hanno fatto da accompagnamento e approfondimento e che sarebbe un peccato
perdere nel vortice del web. Quindi come ogni mese, il 27 appunto, ci troviamo
a reti unificate per riscoprire quei piccoli tesori e le persone che ce le
hanno fatte conoscere.
Chiacchiere e racconti semiseri su ricette, libri e hobby creativi in attesa di quel lunedì di dieta che non arriva mai
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venerdì 27 ottobre 2017
domenica 30 luglio 2017
SCALLION PANCAKE E IL NUOVO LIBRO DELL’MTCHALLENGE.
Ovvero “The crêpe is the new Black”
L’ultimo
nato in casa MTC è uscito solo da
poco più di un mese ed è già andato a ruba, d'altronde non poteva che essere
così, visto il successo dei precedenti.
Potrò essere
anche di parte, e lo sono, ma questo libro è davvero favoloso.
Come tutti
quelli che lo hanno preceduto anche questo è un libro monotematico, ma non per
questo meno ricco. L’argomento sono le crêpes, crespelle e cialde e tutte le
loro sorelle, cugine e parenti varie sparse per il mondo.
Un tour
gastronomico completo a colpi di spatole e padelle. Con tutto il bagaglio di
ripieni, creme, salse sciroppi che queste preparazioni necessitano, per
diventare antipasti sfiziosi, primi robusti, piatti unici, dolci voluttuosi, ma
anche merende e colazioni un po’ diverse dal solito cappuccino e brioche.
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lunedì 24 ottobre 2016
TAPAS DAI CARAIBI ALL’AFRICA, A PASSO DI DANZA, PER L’MTC.
Mai
come in questo caso mi ritrovo a scrivere e postare all'ultimo momento.
Con
il tempo che incalza.
Ultimamente
sono sempre stata tra i ritardatari, in realtà, ma questo mese credevo davvero
di non farcela.
Eppure
il tema del mese dell’MTChallenge è
davvero stimolante e ho avuto idee a raffica fin dall'inizio.
Poi
si sono susseguiti tutta una serie infinita di intoppi, impegni, cambi di
programma, guai personali che non sto a raccontare. Quindi ho rimandato tanto
che ora mi ritrovo a scrivere praticamente a notte fonda.
Potevo
anche prendermi una pausa e saltare una sfida ma mi dispiaceva un po’ prima di
tutto perché stimo molto Mai Esteve,
la vincitrice del mese scorso, come food blogger ma anche come persona. Poi perché, da spagnola qual è, ci ha introdotti
nella loro tradizione più peculiare: la movida, l’andare in giro per locali a
bere e sgranocchiare tante cose buone. Un apericena in itinere insomma.
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giovedì 26 novembre 2015
BRIK À L’OEUF DALLA TUNISIA PER L’ABC CULINARIO MONDIALE.
Altra
interessante tappa dell’ABC CulinarioMondiale che porta tanti foodblogger virtualmente in trasferta in Tunisia sotto la guida di Resy del blog Le tenere dolcezze di Resy
Per
chi non lo sapesse l’ABC Culinario è un gioco creato dal blog Trattoria Muvara,
che seguendo l’ordine alfabetico ci porta in giro per il mondo a scoprire
tradizioni gastronomiche diversissime ma tutte molto interessanti.
Ogni
tre settimane si cambia paese e blog ospitante.
Fino
a domenica quindi saremo tutti in Tunisia.
domenica 26 luglio 2015
MANDAZI: dolci kenioti per l'ABC mondiale, perché quando il caldo si fa duro …
… i duri accendono il forno. O friggono.
Ok, ce la posso fare. Non a friggere.
A tenere in piedi tutto sto “ambaradan” di blog,
intendo.
Nonostante il pc che si è ammutinato decidendo di
mettersi in malattia prima e in
convalescenza adesso.
Nonostante il caldo che mi fa venir voglia solo di
stare in ammollo al mare o stesa sotto un albero a leggere in montagna.
Non che mi lamenti, sia chiaro. È estate e deve fare
caldo. Scherziamo? Non vogliamo mica un’altra estate uggiosa (e non ho detto di
m… perché sono una signora) come quella dell’anno scorso? No, no, va benissimo
così.
Solo che la voglia di starmene in casa a smanettare
sul pc è poca, pochissima.
Soprattutto se si deve lottare con una connessione ballerina
e un pc che va a pedali.
La voglia di "spignattare" invece non manca mai.
Nemmeno, e soprattutto, quella di mangiare.
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lunedì 1 giugno 2015
LLAPINGACHOS ECUADORIANI E L’EVOLUZIONE DI JANE.
“Avete mai perso un’amica? È una delle esperienze
più tristi e sconcertanti che vi possono capitare. Nessuno vi mostra
comprensione, a meno che la vostra amica non sia morta. Ma questo non era il
mio caso. Persi la mia migliore amica molti anni fa. Lo era stata per quasi un
decennio, per più della metà della mia infanzia, e all’improvviso svanì, come
se non fosse mai esistita …”
“… A volte lo shopping mi
sembra una metafora della vita: ci si sforza di scegliere, di selezionare, di
accumulare il più possibile nel rispetto delle proprie risorse economiche, per
poi scoprire che tutto ciò che abbiamo acquistato finisce nell’armadio, va
fuori moda o diventa troppo stretto in vita. È allora che ricordo a me stessa
che l’importante è lo shopping in se, non quello che si compra. È lo shopping
zen. …”
“ … Grazie al cielo la
nostra è una di quelle famiglie che ha scheletri e non fantasmi. I fantasmi
sono personali e invadenti, ricordi che tormentano i vivi. Nella mia famiglia
non possediamo né l’immaginazione né la pazienza per avere dei fantasmi.
Gli scheletri al contrario
sono reali … conservano il passato, le informazioni. … Gli scheletri non vanno
e vengono come i fantasmi. Li si può studiare e misurare, vi si può leggere il
passato. Sono fedeli come i cani…”
L’evoluzione di Jane –
Cathleen Schine
venerdì 22 maggio 2015
DORAYAKI: I DOLCETTI GIAPPONESI DI DORAEMON
Ovvero la merenda giapponese parte seconda.
Quella vera però. Quella più famosa in assoluto.
Quella che almeno una volta noi bambini degli anni ottanta (e anche oltre) abbiamo immaginato
di poter assaggiare.
Nella puntata precedente vi ho parlato dei dolci
giapponesi (wagashi), molto particolari e del loro comune denominatore. Almeno per la
maggior parte. Cioè la confettura di fagioli azuki, o Anko.
Vi avevo infatti accennato che questa confettura,
simile alla nostra crema di marroni, è il ripieno tipico di molti dolcetti. Vi avevo anche già accennato qualche nome. Quelli più
famosi, anche da noi, sono i Dorayaki.
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domenica 22 marzo 2015
INVOLTINI PRIMAVERA-ESTATE VIETNAMITI e la “pelle di leopardo”.
Ma non si chiamavano involtini primavera? Che c’entra
l’estate?
Non siamo mica alla settimana della moda. E poi gli
involtini primavera son cinesi.
Sono forse impazzita?
No, è solo che esiste una versione vietnamita di
questo famoso piatto e viene anche chiamata così. Perché la differenza tra i
più famosi involtini cinesi e questi c’è eccome, e ve la spiegherò. A tempo
debito. Anche la faccenda della pelle di leopardo.
E già questo spiega la ricetta che vi voglio dare
oggi.
Parlare di cucina vietnamita non è semplice, me ne
sono resa conto quando sono andata a cercare qualche ricetta tipica di quel
paese.
Sono numerosissime. Tutte incredibilmente colorate e
saporite.
Il Vietnam fa parte dell’Indocina, quella regione del
sudest asiatico che sta tra l’India e la Cina. Due vicini mica da niente in
quanto a influenze culturali e culinarie.
La cucina non poteva essere altro che ricca, speziata
e varia.
Non c’è solo riso, come si potrebbe pensare, anche se
i modi di prepararlo sono così tanti che non ci si potrebbe comunque annoiare. La
cucina vietnamita ha a disposizione una gran varietà di ingredienti: carne,
soprattutto pollo e maiale, crostacei, verdure, erbe aromatiche e tante tante
spezie. Però è molto leggera perché usa metodi di cottura brevi e veloci, dato
il clima torrido.
In occidente la cucina vietnamita è arrivata quasi
come subordinata a quella cinese o thailandese. A volte viene confusa,
contaminata, occidentalizzata. Quindi trovare delle ricette originali non è
facilissimo. Inoltre uno stesso piatto può avere nomi diversi a seconda della
zona o al contrario con lo stesso nome possono esserci piatti anche molto
dissimili.
Io sono andata a cercare qualche sito specifico in
lingua inglese, anche perché il mio vietnamita non è attendibilissimo. ;-)
Poi è sorto il problema della reperibilità di alcuni
ingredienti che sono fondamentali per preparare gran parte di questi piatti.
Tipo il lemongrass o il pandan, tipi di piante aromatiche. O la
salsa Nuoc Nam, che è a base di
pesce fermentato. Tutte cose che sulle
Alpi monregalesi non sono proprio di casa.
Alla fine mi è caduto l’occhio sugli involtini
primavera. Semplici. Banali. Scontati?
Beh forse si. Se non fosse che la versione vietnamita
è un po’ diversa.
O meglio ce ne sono di due tipi. Quelli classici
fritti (Chả giò),
probabilmente di derivazione cinese, e poi ci sono quelli consumati al
naturale, senza ulteriore cottura.
Farciti,
arrotolati, intinti in una deliziosa salsina e gustati freschi.
Sono
i Gỏi cuốn,
gli involtini estate appunto.
Ma
in qualche parte del paese è possibile anche trovarli col nome di Bánh cuốn,
anche se pare che con questo venga indicato pure un piatto diverso (Delle
frittelle di farina di riso e carne).
Come
volevasi dimostrare. La lingua vietnamita, e la sua cucina, nascondono misteri insondabili.
Se
qualcuno avesse notizie di prima mano da fornirmi, dovute a soggiorni in loco, parentele o amicizie
autoctone, ne sarei felicissima. Grazie.
Per
il momento mi accontento di quello che ho potuto evincere da informazioni
sparse per il web. E nell’attesa di saperne di più ce li siamo bellamente
sbafati a cena ieri sera.
Con
gran soddisfazione. Soprattutto perché marito e figlio hanno gradito
moltissimo.
Ok,
mio figlio in realtà ha subito abbandonato la salsa vietnamita per i più
commerciali e provinciali ketchup e maionese, ma per il resto se li è
spazzolati.
La ricetta come dicevo è stata presa dal web, ne ho
trovate molte con qualche diversità nel ripieno. Io ho utilizzato gli
ingredienti che più ricorrevano in tutte queste.
Praticamente una media matematica.
Con questa ricetta partecipo all’ABC Culinario Mondiale e chiudo anche la tappa vietnamita ospitata
da Sabrina del blog Les madeleines di Proust.
E se avete la pazienza di leggere questo post fino
alla fine, vi parlerò anche di un libro sul Vietnam, che ho avuto il piacere di
riprendere in mano per l’occasione.
Intanto si mangia.
Involtini
primavera-estate vietnamiti Gỏi cuốn /Bánh cuốn
Ingredienti
per circa 10 involtini:
1
confezione di sfoglie di riso per involtini (circa 10),
200g
code di gambero o mazzancolle,
250g
carne di maiale magra (tipo filetto),
50g
vermicelli di riso,
1
carota,
germogli
di soia,
qualche
foglia di lattuga o cavolo verde,
1
spicchio d’aglio,
erba
cipollina,
prezzemolo,
dragoncello,
aceto
bianco.
NOTA: In alcune ricette
nel ripieno comparivano anche i funghi, i peperoni freschi o arrostiti,
peperoncini freschi, cipollotti freschi, menta. Questo conferma che ogni città,
paesino, ristorante vietnamita ha la sua versione. Come del resto capita anche
da noi per le nostre ricette tradizionali.
Sciacquate
i germogli di soia freschi, se sono in scatola sgocciolateli e sciacquateli
bene.
Lavate
e grattugiate le carote a filetti. Lavate le foglie di lattuga e riducetele a
striscioline.
Mettete
tutto in ciotole separate.
Pulite
e tritate separatamente le erbe aromatiche.
Fate
cuocere la carne di maiale in abbondante acqua bollente, deve essere ben cotta,
poi tagliatela a striscioline. Oppure, come ho fatto, io tagliatela a dadini
piccoli e fatela saltare in una piastra antiaderente con uno spicchio d’aglio e
poca salsa di soia. In alcune zone del Vietnam fanno cuocere la carne sulla
griglia infilzata su spiedini.
Aggiustate
di sale (attenzione perché la salsa di soia è già salata).
Lessate
i gamberi per qualche minuto in acqua bollente salata e aromatizzata con una
spruzzata di aceto (o vino bianco), scolateli, fateli intiepidire e
sgusciateli. Teneteli da parte al caldo.
Lessate
i vermicelli di riso seguendo le istruzioni della confezione, io ho portato a
bollore una capace pentola di acqua leggermente salata, ho calato i vermicelli
li ho fatti bollire per 2-3 minuti, li ho scolati e passati velocemente sotto
l’acqua fredda per fermare la cottura.
Disponete
tutti gli ingredienti sul tavolo a portata di mano.
Disponete
davanti a voi una bacinella con acqua tiepida, un canovaccio pulito e un
tagliere di plastica. Immergete una sfoglia di riso alla volta nell’acqua
tiepida finchè è abbastanza morbida da poterla piegare senza romperla, ma non
lasciatela troppo nell’acqua altrimenti diventa molle. Tamponatela
delicatamente sul canovaccio e stendetela sul tagliere.
Mettete
sulla sfoglia, un po’ verso la parte vicina a voi, qualche strisciolina di
lattuga, una forchettata di vermicelli, un po’ di carote e germogli di soia.
Mette qualche pezzo di carne, condite con poca salsa di soia o di salsa
agrodolce. Cospargete con le erbe aromatiche tritate.
Piegate
il bordo inferiore sul ripieno, poi leggermente i due bordi laterali, disponete
tre gamberi e continuate ad avvolgere l’involtino su se stesso.
Continuate
così fino ad esaurimento degli ingredienti.
Potete
anche farcirli con la sola carne o con solo i gamberi.
Servite
gli involtini a temperatura ambiente, accompagnati dalla salsina in cui devono
essere intinti prima di mangiarli.
Per la salsa
agrodolce:
5
cucchiai di salsa di soia,
2
cucchiai di acqua calda,
2
cucchiai di olio di arachidi,
1
cucchiaio abbondante di zucchero,
1
cucchiaino di salsa piccante vietnamita (salsa hoisin)**
1
cucchiaino abbondante salsa di pesce vietnamita (nuoc mam)*
1
spicchio d’aglio fresco.
* la salsa nuoc mam è una
salsa fatta con pesce fermentato, che però non ho trovato e ho sostituito con 4
acciughe sott’olio (o due cucchiaini di pasta di acciughe). Non è la stessa
cosa perché la salsa vietnamita è molto forte, ma ci si può accontentare.
**la salsa hoisin è una
salsa a base di peperoncino piccante, io non ho trovato nemmeno questa quindi
ho usato qualche goccia di tabasco.
Spellate
l’aglio e spremetelo con lo spremi aglio.
Sciogliete
lo zucchero nell’acqua calda, unite le acciughe (o la pasta di acciughe), la
salsa di soia, l’olio di arachidi, e l’aglio spremuto. Aggiungete la salsa al
peperoncino, tipo tabasco, o del peperoncino in polvere a piacere. Frullate
tutto brevemente per emulsionare tutto.
Siete
arrivati fino a qui? Vi chiedo ancora un paio di minuti di pazienza.
Come a ogni tappa di questo virtuale giro del mondo,
mi piace anche proporvi un libro sul paese che stiamo attraversando. Anche
questa volta non ho potuto farne a meno.
Sul Vietnam si è scritto molto, molto si è raccontato
sui giornali, in tv e al cinema. È diventato il mito di una generazione,
sinonimo di una rivoluzione che prometteva grandi cose che poi sono state
disattese. Molto si è parlato della sua
guerra e poco del dopo-guerra. Di come sono andate le cose quando i
corrispondenti al fronte, sono andati via. Il mondo è andato oltre.
Ma queste guerre non andrebbero mai scordate,
soprattutto in questo periodo che altre guerre ideologiche ci stanno
minacciando, anche da vicino.
Così ho voluto rileggere un libro scritto da chi
questo conflitto l’ha visto con i propri occhi e anche attraverso gli occhi
“del nemico” e che è rimasto a vedere il dopo.
Il libro è PELLE
DI LEOPARDO, di Tiziano Terzani.
“La guerra è una
cosa triste, ma ancora più triste è il fatto che ci si fa l’abitudine … Non si
può scrivere di questa o un’altra guerra se non la si va a vedere, se non si è
disposti a condividerne i rischi. Me lo dicevo andando al fronte … Mi pareva
che andare alla guerra … fosse anche una forma di lealtà nei confronti di chi
la combatte … Non ho cambiato idea, ma ora che ci sono ho paura e ciò che mi fa
più paura è accorgermi che … non la si può vivere che da una parte del fronte …
I soldati dietro i quali si va diventano presto “noi”, e quelli che ci sparano
addosso, gli altri, diventano nemici …”
Il libro inizia
così, nell’aprile del 1973. Terzani sta attraversando il paese al seguito
dell’esercito sudvietnamita, appoggiato dagli americani. Racconta tutto quello
che vede, le persone che incontra. Rimarrà in Vietnam fino alla fine della
guerra e anche dopo, quando i vincitori dovranno veramente cercare di costruire
un paese nuovo. Poi le cose non sono andate come si sperava, ma la forza di
quel racconto in prima linea rimane avvincente e vero.
La pelle di leopardo si riferisce alla cartina del
Vietnam, a chiazze a seconda che i territori fossero occupati dalle forze
governative o dalla guerriglia.
domenica 1 marzo 2015
BURRITOS DI POLLO e FRIJOLES CHARROS per l’ABC Culinario Mondiale.
Eccoci con il consueto appuntamento con l’ABCCulinario Mondiale che ogni tre settimane ci porta in un posto diverso in giro
per il mondo.
Questa volta siamo in Messico e la nostra guida è Lucia del blog Torta di Rose.
Ma ancora per poco. Domani infatti ripartiremo alla
volta del Vietnam.
Come al solito arrivo sempre per ultima, quando tutti
hanno già rifatto le valige e son pronti a ripartire. Ma che volete farci. Io devo
chiudere la carovana.
E pensare che questa volta mi sembrava una tappa
facile. La cucina messicana non mi è nuova, anzi la amo molto.
Come quasi tutti, ho avuto modo di conoscere le
tortillas con tutti i suoi ripieni di carne e verdura, di formaggio. I piatti
di carne in umido. I fagioli. Il riso.
Le salse più o meno piccanti. Dove il più o meno
piccante sta per rovente o infernale.
Conosco molto meno la cucina della costa, dove il
pesce e la frutta tropicale fanno da padrone.
Cercando qua e la mi si è aperto un mondo.
Non pensavo nemmeno di trovare così tante ricette
dolci. Io conoscevo solo i Churros, che sono dolcini fritti molto buoni.
Alla fine non sapevo che fare. Stavo rischiando di
saltare questa tappa.
Proprio il Messico no!
A togliermi dall’impasse è arrivato mio marito che è
tornato dal supermercato con un bottino incredibile di peperoncini di vari
tipi.
Il richiamo è stato irresistibile.
Non potevo proprio rinunciare a preparare un piatto
che è diventato l’emblema della cucina messicana nel mondo. I burritos con una
vagonata di salsa enchilada e con contorno di fagioli neri.
I burritos sono fatti con le tortillas di mais, sorta
di piadine tanto per dirla in modi spicci, ripieni di ogni ben di Dio: carne di
pollo, manzo, cipolle, peperoni, funghi, formaggio, mais. Arrotolati e conditi
con una salsa piccante. Serviti ben caldi con contorno di fagioli neri e riso.
Si differenziano sostanzialmente dai tacos texani
perché in questi ultimi le tortillas cotte sulla piastra vengono ancora fritte
in olio bollente prima di essere farcite.
La salsa enchilada messicana è una sorta di salsa di
pomodoro e cipolle con tanto (credetemi quando dico tanto) peperoncino, mentre
quella texana è più un sugo di arrosto molto saporito e piccante (anche loro
non ci vanno leggeri).
La ricetta delle tortillas che vi do è un po’
imbastardita, nel senso che ci vorrebbe la tipica farina di mais messicana, che
qui non si trova, così io ho mischiato farina 0 con farina di mais precotta
(quella per polenta istantanea per intenderci).
BURRITOS
DI POLLO E PEPERONI CON SALSA ENCHILADA MESSICANA
Per
le tortillas:
200g farina 0,
100g farina di mais precotta o fioretto,
2 cucchiai di olio d’oliva e.v.o,
un pizzico di sale,
acqua tiepida quanto basta.
Impastare le due farine con il sale, l’olio e acqua
tiepida quanto basta per ottenere un impasto morbido ed omogeneo.
Dividete l’impasto in 8-10 palline uguali. Stendetele
una alla volta col mattarello formando dei dischi sottili di circa 20cm di
diametro. Mentre ne fate uno tenete il resto delle palline coperte con un telo
umido.
Cuocete i dischi di pasta uno alla volta su una
padella antiaderente piatta dal fondo molto spesso oppure su una piastra. Non
occorre ungere la padella, è sufficiente che sia ben calda.
Man mano che le tortillas sono pronte mettetele
impilate su un piatto e copritele con un telo pulito e tenetele al caldo.
Farcitura
di pollo, cipolle e peperoni.
600g petto di pollo a fettine,
1 lattina di birra chiara,
1 lime,
1 cucchiaino di cumino,
1 cucchiaino di peperoncino in polvere oppure 1
peperoncino fresco tritato,
2 cucchiaini di zucchero di canna integrale,
1 cucchiaino di origano secco,
2 spicchi d’aglio spellati e affettati,
2 cucchiaini di salsa Worcestershire,
2 cipolle bionde,
1 grosso peperone rosso,
olio e.v.o,
sale, pepe.
In un contenitore di vetro col coperchio mescolare la
birra con il succo del lime, la salsa Worcestershire, lo zucchero, l’aglio, il
peperoncino, l’origano e il cumino.
In questo composto mettere a marinare il pollo per
almeno 2 ore.
Affettare le cipolle e i peperoni a julienne. Scaldare
3 cucchiai di olio in una padella antiaderente, far rosolare le cipolle per un
paio di minuti poi unite anche i peperoni.
Fate rosolare 2 minuti a fuoco vivo mescolando spesso.
Unite uno o due cucchiai di acqua e fate cuocere a fuoco moderato per 10
minuti. La verdura deve essere cotta ma ancora consistente. Aggiustate di sale.
Togliete le verdure dalla padella e tenetele da parte.
Sgocciolate il pollo e tagliatelo a il pollo cubetti
piuttosto piccoli. Scaldate nuovamente la padella aggiungendo un cucchiaio
d’olio. Fate rosolare il pollo a fuoco vivo aggiungendo due o tre cucchiai
della marinata e mescolandolo spesso. Aggiustate di sale e pepe. Se volete
potete aggiungere ancora del peperoncino piccante in polvere.
Infine unite le cipolle e i peperoni e mescolate bene,
fate insaporire per un paio di minuti.
Tenete al caldo.
Salsa
enchilada messicana
1 cipolla dorata,
1 spicchio d’aglio,
1 foglia di alloro,
2 peperoncini Jalapeno freschi ( se siete temerari unite anche un piccolo Habanero, ma non voglio
responsabilità poi …)
peperoncino in polvere a piacere,
1 cucchiaino di origano secco,
1 cucchiaino di zucchero di canna,
1 cucchiaino di aceto bianco,
250g polpa di pomodoro a pezzetti,
sale, pepe,
un pizzico di cumino.
Tritate finemente le cipolle, l’aglio e i peperoncini
Jalapeno. Fateli rosolare dolcemente in padella con un cucchiaio di olio, unite
lo zucchero e l’aceto e fate cuocere due minuti mescolando.
Aggiungete la polpa di pomodoro, l’alloro, l’origano,
il cumino un mestolino di acqua tiepida e fate cuocere per almeno 20 minuti,
finchè la salsa non si è ben asciugata e
risulta omogenea. Aggiustate di sale e pepe ed eventualmente di
peperoncino.
Preparate
i burritos:
Farcite le tortillas con il pollo e la salsa ben
caldi, unite del provolone piccante a scaglie e arrotolate.
Se volete aggiungete dei peperoncini Jalapeno freschi
tritati, quasi dolci. O i Rawit rossi di media piccantezza. O gli Habanero …
che arrivano credo dall’inferno.
Spolverate di provolone e passate qualche secondo
sotto il grill del forno.
Servite con pomodori, insalata, mais e accompagnate
con i classici fagioli neri messicani, frijoles refritos. Io invece li ho
accompagnati con i:
FRIJOLES
CHARROS – FAGIOLI DEI COW BOYS VERSIONE TEX-MEX.
Quelli
dei film di Bud Spencer, per intenderci. Anche se quelli sono i fagioli
borlotti, o rossi. Invece io ho usato i fagioli neri messicani. Anche perché
pare che questo piatto sia originario del Messico ma pian piano si è esteso
anche in Texas.
200g fagioli neri secchi,
1 scalogno,
80g pancetta affumicata,
2 cucchiai di concentrato di pomodoro,
3 cucchiai di passata di pomodoro,
peperoncino in polvere,
sale, pepe,
olio d’oliva.
Mettete in ammollo i fagioli in acqua fredda per
almeno 3 ore, scolateli e metteteli in una pentola ben coperti di acqua fredda.
L’acqua deve superare i fagioli di almeno 10 cm.
Fateli bollire per un ‘ora circa e salateli solo
all’ultimo. Scolateli tenendo qualche mestolo della loro acqua.
Tritate finemente lo scalogno e rosolatelo in una
padella con due cucchiai di olio e la pancetta a dadini. Unite i fagioli, il
concentrato di pomodoro, la passata e un mestolo di acqua di cottura dei
fagioli.
Fate cuocere a fuoco moderato per almeno 10-15 minuti.
I fagioli devono essere ben cotti e cremosi ma non completamente sfatti.
Eventualmente unite altra acqua di cottura dei fagioli.
Aggiustate di sale, pepe e peperoncino. Serviteli ben
caldi.
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sabato 7 febbraio 2015
PASTÉIS DA FEIRA A RITMO DI SAMBA.
O di Kizomba.
Anche se in realtà la Kizomba è africana. Dell’Angola,
precisamente.
Ma anche il Samba in fondo lo è.
Non siete convinti?
L’Angola, come altri stati dell’Africa occidentale, è stata
terra di dominazione portoghese e come il Brasile ne ha conservato la lingua.
Da qui e da molte altre terre africane sono partiti in molti, catturati,
incatenati e venduti come schiavi in quelle americhe ancora da colonizzare.
Dall’Africa, via Capo Verde, fino a Salvador de Bahia.
Brasile.
Qui la cultura, la cucina, la musica e la religione
dell’Africa nera si sono mischiate con quelle degli indios locali e dei
cattolicissimi conquistatori europei originando quel caleidoscopio di colori,
suoni e profumi che è il Brasile. E la Samba ne è la più peculiare espressione.
Pare infatti che sia nata a Salvador de Bahia dai
ritmi delle varie liturgie dedicate alle numerose divinità africane. La parola
Samba potrebbe proprio derivare dall’angolano “massemba” che significa “ombelico”,
ma più precisamente è figlia di un antico ballo, il Semba, nato proprio in
Angola nel 1500 durante il colonialismo e la tratta degli schiavi.
Dall’Angola poi è passato a Capo Verde, ai Caraibi e
all’America Latina dove ha incontrato altri ritmi autoctoni e ha dato vita a
balli diversi ma con un’anima tribale e sensuale in comune.
In Brasile è diventato il Samba (o la Samba), ballo
dei rituali Candomblè in origine e ora ritmo sfrenato del Carnevale, che però è
strettamente legato alla religione animista brasiliana.
La Kizomba è una parente più giovane, nata solo nei
primi anni ’80 da un mix di Semba e altri ritmi africani con passi che sembrano
rubati al tango. Partita sempre dall’Angola e presto diffusa in tutta l’Africa
Occidentale e nei vari paesi di lingua portoghese, francese e creola.
Nella lingua angolana Kimbundu significa “festa”.
Ma anche Samba è, se vogliamo, sinonimo di festa. La
Festa con la F maiuscola.
Il Carnevale più sfrenato che c’è. Quello di Rio de
Janeiro.
Dove le scuole di Samba del paese si ritrovano per
sfilare insieme. Con coreografie e costumi favolosi a cui lavorano per tutto
l’anno.
Perché è anche una gara. Una sfida “all’ultima
natica”.
Li in Brasile le persone sembrano avere quella parte
del corpo dotata di vita propria.
Noi non possiamo nemmeno lontanamente sperare di
imitarli. Non c’è storia.
Ci ho provato, ma anche se mi sforzo di pensare di
compire quei movimenti il mio sedere si rifiuta di obbedire.
E non è nemmeno questione di sovrappeso, di sedere
flaccido o di età. Ho visto brasiliane anziane con un fondoschiena grosso come
la provincia di Cuneo (ce ne sono, poche, ma ce ne sono) muoversi come
farfalle.
Per cui lascio il Samba a quelle pantere amazzoniche e
mi son data alla Kizomba.
Vogliamo proprio ridere? Questo è un ballo solo
apparentemente più facile.
I ritmi sono più lenti e scanditi, le movenze sono
sensuali ed eleganti. Una sorta di tango, da ballare molto attaccate al proprio
ballerino. Bisogna proprio lasciarsi guidare in tutto e per tutto da lui.
Essere alla sua mercé. Ballare letteralmente ad occhi chiusi.
Il ballerino poi deve guidare con passo sicuro e
portamento fiero, elegante e molto maschio.
Capite perché qui c’è veramente da ridere? Ma da
schiantarsi.
Punto
primo: sensualità ed eleganza. Qui stenderei un velo
pietoso, ho già detto una volta che ho la stessa sensualità ed eleganza di un
comodino dell’Ikea. Quindi passo oltre.
Punto
secondo: affidarsi completamente all’uomo. Ma stiamo
scherzando?
Una donna italiana che si fida ciecamente del partner
è una contraddizione in termini.
Non siamo geneticamente predisposte a questo. Proprio
non ci riusciamo.
Ma d’altra parte come possiamo farlo?
Gli uomini non sanno nemmeno dove sono i calzini, né
in casa (perché noi donne ci divertiamo a nasconderli, si sa) ma nemmeno fuori
casa.
Provate a mandare un marito qualsiasi a comprarsi i
calzini da solo. Secondo me lo chiede al Tom Tom. E se maschio si perde pure
lui.
Anche perché dopo due metri non si ricorda nemmeno più
cosa stava andando a fare e perché. Secondo me i maschi hanno la memoria a
breve termine di tre secondi, come i pesci palla. Prova pratica, poi ditemi se
non ho ragione: prendete vostro marito, fidanzato, figlio o fratello e ditegli
a bruciapelo di fare tre cose, una dietro l’altra. Contate fino a 5 e poi
chiedetegli di ripetere. Se non rimane li a fissarvi con occhio vitreo e
ipersalivazione da labrador (potete quasi sentire un lieve fischio da
elettroencefalogramma piatto, TUUUUU…, ci avete mai fatto caso?) è sicuro che
non riuscirà a ricordarne più di una. L’ultima ovviamente.
Non è colpa delle madri, adesso che ho un figlio
maschio lo posso dire. Noi ci proviamo in realtà. Ho visto amiche con figli di
entrambi i sessi chiedersi costernate dove avevano sbagliato: perché la femmina
a 5 anni si arrangia a far tutto e il maschio rimane beatamente nel mondo dei
Gormiti anche oltre i 20? Eppure li hanno educati allo stesso modo! Mistero.
Punto
terzo: lui deve prendervi e guidarvi con eleganza,
decisione e sensualità.
Ora io non voglio sminuire il maschio italiano. Lungi
da me. Non è che non sia in grado di essere tutte queste cose, è il farle tutte
e tre contemporaneamente che mi lascia forti dubbi.
Perché dopo un po’ non si ricorda più cosa deve fare.
Ma veniamo alla ricetta del giorno. Ancora brasiliana.
Ancora un cibo da strada, uno street food. I Pastéis da feira si possono gustare in tutto il Brasile e in ogni
momento dell’anno.
Ma una volta si trovavano soprattutto sulle bancarelle
dei mercatini settimanali della frutta o feira livre, da cui il nome. Pare che
fossero preparati e venduti da ambulanti di origine giapponese e serviti
insieme al “caldo de cana ”, spremuta
di canna da zucchero.
Con questa ricetta partecipo di nuovo all’ABC Culinario Europeo, supportato dalla
bravissima Rosa Maria del blog Torte e dintorni.
PASTÉIS
DE FEIRA – Tortelli fritti ripieni di carne.
Per l’impasto:
350g farina 00,
1 uovo,
100ml di acqua fredda circa,
1 cucchiaio di grappa,
1 cucchiaio di olio di mais (io extra vergine
d’oliva),
1 pizzico di sale.
In una ciotola impastate la farina con l’uovo, l‘olio
e il sale. Iniziate a formare una pastella, aggiungete la grappa e l’acqua poca
alla volta continuando a incorporare farina. Lavorate l’impasto finchè diventa
omogeneo e consistente ma malleabile e che non si appiccica alle mani.
Avvolgetelo nella pellicola per alimenti e lasciatelo riposare circa mezz’ora.
Per il ripieno di carne:
500g carne macinata di bovino,
1 piccola cipolla,
1 spicchio d’aglio,
50g olive verdi snocciolate e tritate (io taggiasche),
1 cucchiaio di prezzemolo tritato,
sale, pepe, olio d’oliva,
formaggio a dadini o uova sode a piacere.
Tritate finemente la cipolla, fatela soffriggere
dolcemente in una padella con poco olio e l’aglio. Unite la carne e fatela
rosolare mescolandola bene. Salate, pepate e aggiungete il prezzemolo tritato e
le olive. Fate insaporire qualche minuto e spegnete. Fate raffreddare e unite a
piacere l’uovo sodo tritato grossolanamente.
Preparate i pastéis.
Stendete la sfoglia molto sottile, col mattarello o
con l’apposita macchina.
Ricavate dei rettangoli di circa 7x14cm. Mettete un
cucchiaio di ripieno su una metà, ripiegate la sfoglia sul ripieno e chiudete
bene tutti i lati facendo uscire l’aria.
Sistemateli su dei vassoi di carta leggermente
infarinati, su teli puliti o anche su delle teglie coperte di carta forno
anch’essa infarinata.
Friggeteli pochi alla volta in abbondante olio caldo.
Fateli sgocciolare su carta assorbente e servo teli subito.
La misura dei pastéis può variare: da molto piccoli,
quasi da boccone a grandi.
Il vero pastel de feira è molto grande e poco farcito,
con tanto impasto friabile e croccante.
Quello chiamato “speciale” ha, insieme al ripieno di
carne, un uovo sodo intero e formaggi a dadini.
Il ripieno di carne è quello classico ma possono
essere farciti anche diversamente:
formaggio, prosciutto e pomodoro (chiamati “baruru”),
gamberetti e cuore di palma,
formaggi misti locali o pomodoro, origano e formaggio
C’è anche la versione dolce con ripieno di banana,
zucchero e cannella.

Siti
di riferimento.
in italiano:
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