sabato 29 novembre 2014

TORTA SOFFICE ALLE NOCCIOLE CIOCCOLATO E CASTAGNE ... perchè a Natale c'è tempo!

Oggi non sono in vena di raccontare nulla. Sarà il tempo piovoso (di nuovo!!).
Sarà che anche Novembre è finito e siamo ormai alla fine dell’anno.

Si sta avvicinando il Natale. Veramente è da un po’ che in giro si vedono addobbi, lucine, offerte per pacchi dono. Non eravamo nemmeno usciti dalla buriana di Halloween.
Le streghette e i mostriciattoli hanno fatto appena in tempo a cambiarsi d’abito e diventare befanine, angioletti e piccoli gnomi operosi.
Via le palandrane da magia nera, via i cappellacci inquietanti e i ragni pelosi. Spariti anche i gatti neri. Ecco soffici babbucce rosse con campanellini, ali dorate e fiocchi colorati.
E renne. Ovunque ti giri. Tante renne che neanche in Lapponia ce ne sono così.
Probabilmente hanno travestito i gatti neri di Halloween da renne. Deve essere così.
Non si può mica perdere tempo.

Ma si può star dietro a questi cambiamenti repentini?
Io comincio ad avere una certa età, ho bisogno di prendermela con calma.

Infatti ho fermamente evitato di lasciarmi coinvolgere da questa atmosfera troppo presto.
Anche perché poi mi ritrovo al 27 Dicembre che già non ne posso più di luci a intermittenza e aghi di pino (finti ovviamente) che svolazzano per casa. E di renne.
Anche se tutto sommato non mi dispiacerebbe averne una vera.
Dopotutto abito in montagna e mi farebbe comodo.
Quando inizierà a nevicare (perchè inizierà, dicono, tra pochi giorni. Si passerà direttamente dalla pioggia alla neve, temo!) sai che utile non aver problemi di parcheggio, slittamenti di ruote e giramenti di sfere! Il casino è dover ripulire le lapponiche deiezioni.
Perchè un conto è avere un cane di 15 chili ...
Ma non perdiamoci in argomentazioni così poco elevate.

Da piccola iniziavo a preparare il presepe e l’albero non prima dell’8 dicembre, il giorno dell’Immacolata.
Iniziavo. Perché era tutta una procedura complessa che partiva dal tirare giù dalla soffitta le scatole degli addobbi. Passarle in rassegna per vedere  cosa c’era e cosa mancava. Approfittare della fiera del’Immacolata a Finale Ligure e quella di Santa Lucia, il 13, a Savona, per acquistare ancora qualche pallina o un paio di statuine in più.
Quindi le cose andavano un po’ per le lunghe. In pratica la fase di allestimento poteva durare anche fino alla Vigilia. Ma si entrava nello spirito del Natale a poco a poco.
Anche in giro, nei negozi e per strada, non si vedevano molti addobbi prima di quelle date.

Adesso però ci siamo quasi. Lunedì inizia ufficialmente l’Avvento.
Quindi inizierò a postare anche ricette più consone al periodo.
Ma oggi siamo ancora a Novembre. E mi godo ancora un paio di giorni di attesa con una torta semplice e golosa. Ideale per la merenda dei bambini e per la colazione.
Magari una dolce pausa mentre si tirano fuori le statuine. O una sosta golosa tra un giro di shopping e l’altro. Così accontentiamo anche chi ah più spirito natalizio di me.

La ricetta è semplice e può essere anche senza glutine s preparata con fecola e cacao consentiti.

 

 

 


TORTA SOFFICE DI NOCCIOLE, CIOCCOLATO E CONFETTURA DI CASTAGNE.

 
200g nocciole sgusciate,
150g zucchero semolato,
100g burro,
100g cioccolato fondente,
100g fecola do patate (o farina 00),
3 uova grandi,
2 cucchiai di confettura di castagne,
1 cucchiaio di cacao amaro,
½ bustina di lievito.

Fate ammorbidire il burro per mezz’ora a temperatura ambiente. Frullate le nocciole molto finemente con un cucchiaio dello zucchero.
Fate sciogliere il cioccolato fondente in un pentolino con un cucchiaio di acqua, fate intiepidire
e unite la crema di castagne mescolando bene.
Montate  a crema il burro con lo zucchero rimasto, unite i tuorli uno alla volta.
Incorporate le nocciole, il cioccolato fuso con la confettura e la fecola setacciata col cacao e il lievito. Unite gli albumi montati a neve con un pizzico di sale.
Versate in una teglia di circa 24cm di diametro imburrata e infornate a 180° per 10 minuti, poi abbassate a 160° per altri 25-30 minuti. Non aprite il forno prima del tempo, alla fine infilzate la torta con uno stecchino, se esce asciutto è cotta.

Potete usare una teglia rettangolare e tagliare la torta a quadrotti, tipo i brownies americani.
Se usate la farina la torta tenderà a lievitare di più.




domenica 23 novembre 2014

MUFFINS NERI AL CIOCCOLATO E SPEZIE CAJUN, PERCHÉ … I’M FEELING GOOD.

… Dragonfly out in the sun, you know what I mean, don't you know
Butterflies all havin' fun, you know what I mean
Sleep in peace when day is done
That's what I mean
And this old world is a new world
And a bold world
For me
Stars when you shine
You know how I feel
Scent of the pine
You know how I feel
Oh freedom is mine
And I know how I feel
It's a new dawn
It's a new day
It's a new life for me
And I'm feeling good …


Ovvero: vorrei la pelle nera.
Come direbbe Fusto Leali (ora che ci penso anche la sua canzone farebbe al caso)
Perchè vorrei avere il ritmo nel sangue e nelle gambe, le movenze feline, la voce calda e sensuale come le persone di colore. Ma che ci posso fare se invece sono pallida, con la voce da citofono e il senso del ritmo di un comodino dell’Ikea?

Farmene una ragione e preparami un dolcetto. Magari un muffin.
E tornare a parlare dell’MTChallenge, della sfida lanciata da Francesca e anche un po’ di me. Perché la prova del mese non è solo fare i muffins. Per quelli “basta” seguire la ricetta che ci ha insegnato lei. Bisogna anche abbinarli a un testo che in qualche modo ce li ha ispirati. Quindi si deve anche parlare di sé e dei propri sentimenti.

Semplice vero? Tanto semplice che sono andata in confusione. Troppe idee in testa. Incapacità di scegliere la migliore o quella che in qualche modo sento più significativa.
Quando devo lasciarmi andare i miei pensieri in libertà io ho sempre un sottofondo musicale.
Ma se credete che ispirarsi alla musica sia stato risolutivo, credete male.

Io in fatto di gusti musicali sono onnivora e incostante, peggio che con i libri.
In un pomeriggio posso passare da “Casta Diva” nell’incisione della Callas a “Fin che la barca va” di Orietta Berti, attraversando gli AC/DC e Fedez. Per dire.

Figuriamoci. I miei padrini di battesimo sono stati Morandi, Iglesias (ma io perché mi chiamo Manuela secondo voi?) ed Elvis. Che mia mamma mi faceva sentire di continuo da piccola.
Tutti e tre in fila. Come le fatine della Bella Addormentata. Film compresi. No, fate un po’ voi. Poi una viene su leggermente sbarellata e confusa.
Per forza che poi mi sono buttata su qualsiasi genere musicale in grado di darmi tregua, anche il coro degli alpini, basta variare un po’.
Adesso ho rifatto pace con le tre fate madrine, con Iglesias poi, da quando ha inciso un disco di tanghi … ma questa è un’altra storia.

Elvis in più ha il merito di avermi fatto entrare nel tunnel del rock prima, dello swing, del blues poi e infine approdare al soul. In tutte le sue sfumature.
Infatti ho incontrato la mia nuova fata madrina. Quella dell’età tardo adolescenziale.
Dopo un periodo Heavy Metal (certo che si), ma anche dopo “Sei come la mia moto” di Jovanotti.  Va beh nessuno è perfetto, suvvia. Ero così giovane!!

Comunque alla fine ho incontrato lei: Nina Simone.
La regina della musica black. L’erede vera di Billie Holiday, che ne è l’imperatrice.
Prima delle Blue Belles, prima di Janis Joplin, Ella Fitzgerald, Donna Summer, prima di Tina Turner e di tutte le altre, c’è stata lei. Anche prima di tutti i crooner, bianchi e neri.

C’è una sua canzone che adoro. Che ascolterei sempre e comunque. Che è morbida e sensuale, ma anche grintosa. Che è positiva e ottimista ma nello stesso tempo malinconica.
Un inno alla gioia, con un velo di amarezza ma anche di rivalsa.
Che è la quintessenza del soul e dello swing.
Che sa di locali fumosi di New Orleans, ma anche di eleganti teatri newyorchesi.

Feeling good

È stata scritta nel 1965 (e io non ero ancora nata, chiariamolo) per un musical e da allora l’hanno cantata in tanti. Anche Michael Bublè ed egregiamente, in una versione più swing e ballabile, con tanto di orchestra dal vivo (che resti fra noi è un gran bel pezzo di crooner!)
Ma Nina Simone ha una marcia in più.
Perché la canta con l’eleganza, la sensualità e la grinta di chi è nato proprio nella culla del jazz: gli stati del sud est degli Usa. Louisiana, Mississipi, Georgia eccetera.

Quindi i miei muffins sono neri, poco dolci anzi amari, aromatici e molto speziati. Con tanti profumi e sapori contrastanti. Come quella canzone. Come la cucina di quei posti. Come me … a parte il nero, purtroppo!.
Pertanto, noci pecan, peperoncino, spezie cajun e naturalmente cioccolato fondente nero.

Perché nonostante le mie insicurezze, le mie contraddizioni, nonostante tutti gli alti e bassi della vita, nonostante tutto … I’m feeling good!

 


 
 
 
 

MUFFINS NERI AL CIOCCOLATO FONDENTE E SPEZIE CAJUN (quasi).
(non chiamateli dolci … non è così ovvio)

Ingredienti per 12 muffins:
2 uova,
200g farina 00,
60g fecola di patate,
50g cacao amaro in polvere,
70g cioccolato fondente,
100g gherigli di noci pecan (se non le trovate usate le noci nostrane con un 20% di nocciole),
30g zucchero di canna integrale *,
100ml latte,
150ml latticello (se non lo trovate usate pure tutto latte)
80g burro,
50 ml di rum chiaro,
2 cucchiaini di mix di spezie cajun** (Paprika, peperoncino, pepe bianco e nero, noce moscata, timo e origano un pizzico),
la punta di un cucchiaino di cannella e zenzero,
10g lievito in polvere per dolci,
½ cucchiaino di bicarbonato,
un pizzico di sale.

Tritate non troppo finemente nel mixer le noci pecan e il cioccolato. Mischiate in una ciotola tutti gli ingredienti secchi: farina, cacao, lievito, bicarbonato, spezie, sale, cioccolato e noci.
In un’altra ciotola sbattete le uova con lo zucchero, unite infine il latticello il burro fuso e il liquore.
Versate il composto liquido al centro di quello secco e amalgamatelo velocemente con una spatola senza lavorare troppo l’impasto (non usate fruste o sbattitori elettrici). Date al massimo una decina di giri di spatola alla “fast and furious”. Il composto deve rimanere un po’ grumoso. Versate negli stampini da muffins imburrati o foderati con gli appositi pirottini.
Riempiteli fin quasi all’orlo così si formano bene le classiche cupolette. Infornateli subito a 180°, forno statico, per circa 20-25 minuti. Fate la prova stecchino.
Toglieteli dal forno, fateli intiepidire 5 minuti prima di toglierli dagli stampini.
Serviteli tiepidi.

 


Accompagnate con confettura di peperoni piccante (modestamente homemade) e formaggio fresco spalmabile. Potete anche inserire un cucchiaio di confettura all'interno del muffin.

 
 
Questo è uno con confettura che ha eruttato fuori in cottura.
 
 
 
Questo è un muffin vuoto.



Ma se volete davvero destabilizzare i commensali serviteli con un pezzetto di Blu del Monte Moro fresco o altro formaggio erborinato e un filo di miele di castagno. Il gusto dolce amaro del cioccolato fondente e il piccante delle spezie secondo me ci stanno a meraviglia.
Se poi li fate in versione mini, come aperitivo hanno il loro perché.
Ma anche alla fine del pasto come pre-dessert. Che adesso va tanto di moda.



 
 
 

* veramente per coerenza avrei dovuto usare il “Brown Sugar” che è uno zucchero scuro derivato dalla melassa tipico di quelle zone. Ma qui è introvabile, quindi ho optato per lo zucchero di canna integrale. Ma d’altronde la coerenza non è di questo post a prescindere.

**si tratta di un mix di spezie tipico della cucina cajun e creola (quindi già un connubio tra tradizione africana e caribica) che si sono poi fuse nella cucina della Louisiana e dintorni.
Pepe nero, pepe bianco, peperoncini di varie qualità, paprika, noce moscata, timo, origano, aglio e cipolla secchi e pare anche zenzero. Anche questo non si trova facilmente già pronto ma si può preparare in casa mischiando nel mortaio tutte queste spezie ed erbe che invece sono più reperibili da sole. Come ho fatto io, diminuendo, in questo caso, drasticamente la dose di aglio e cipolla perché mi sembrava un po’ troppo. Comunque sia quello che deve prevalere su tutto è il mix di pepe e peperoncini.

Per la cronaca: tempo fa sono andata a cercare questo mix in un negozio di spezie, sali e tisane da tutto il mondo. Uno di quelli molto chic. Quelli con commessi molto giovani, molto trendy, molto ayurvedici e molto compresi nel loro ruolo di educatori di palati provincialotti.
Mi hanno vista scrutare il banco delle spezie e si sono avvicinati con fare accondiscendente di chi si prepara a fare i soliti spiegoni. Io mi giro e a bruciapelo domando: “Ma il mix cajun lo avete?”. Smarrimento totale. Rumore di certezze infrante. Gli esperti non lo conoscevano.
Mi guardavano straniti. Neanche gli avessi chiesto qualcosa di illegale.
Allora io, con aria costernata e didattica da preside (e trattenendo le risate), ho aperto le loro giovani menti e, col mio sacchettino di spezie per farlo homemade, sono uscita con passo felino. Più militaresco in effetti data la mia legnosità (comodino,Ikea) però Nina sarebbe stata fiera di me!

Sono o non sono una food blogger?
E son soddisfazioni.
I’m feeling so good.
Basta poco.

 
 
 

 
 
 
 

martedì 18 novembre 2014

MUFFINS AL MATÈ E DULCE DE LECHE … e i ricordi di infanzia.

Eccoci all’appuntamento con l’MTC. Questo mese vanno in scena i muffins.
Chiamateli col loro nome di battesimo. Io da ora in poi non mi sbaglierò più.
Vi confesso che nei miei rigurgiti di fondamentalismo linguistico mi sono sempre rifiutata di chiamare quei mini dolci col loro nome anglo-americano:“Chiamateli tortine che diamine. Il nome italiano esiste, usiamolo!”. In quei momenti manca solo che sventoli il tricolore brandendo un tomo dell’Accademia della Crusca.

In effetti quei dolci monoporzione che fin’ora preparavo io sono tortine. Come del resto la maggior parte di quelli che di solito vengono chiamati muffins. Ma muffins proprio non sono, in quanto il procedimento è chiaramente diverso: le prime si preparano come una classica torta, ben sbattute, montate e omogenee, cotte però in stampi monodose; gli altri si preparano lavorando il meno possibile l’impasto, anzi val bene qualche grumo.
Per cui se volete pronunciare la parola muffin attenzione che lo siano sul serio, altrimenti sono tortine. Discorso a parte per quanto riguarda i Cup Cakes, ma andatevi a leggere il post dettagliato dell’MTC al riguardo.

Espletato il mio dovere patriottico, adesso vi posso dire in tutta sincerità che io un muffin vero non l’ho mai preparato. Per sapere esattamente come si fanno c’è voluta Francesca che ha scelto l’argomento della sfida.

Però non poteva essere così semplice. Ma non siamo mica qui a far la barba alle cozze!
Nossignori. Nostra signora delle complicazioni, la regina dell’elemento sorpresa, la sacerdotessa degli imprevisti e possibilità che neanche al Monopoli, cioè Alessandra, ci ha messo lo zampino e ha richiesto che questi muffins fossero ispirati a un testo letterario, libro, poesia, canzone che in qualche modo ci rappresenti o che ci ha colpiti.

“Ma è una figata pazzesca!” Ho detto subito io.
“Oh mammamia adesso che faccio?” Ho pensato subito dopo.
Perché se il connubio libri-cucina è la quintessenza e la ragione effettiva del mio blog, un conto è abbinare un piatto qualunque che ricordi un libro o il suo autore, fin li è stato facile: J.Amado=cucina brasiliana, P.D.James=cucina inglese, eccetera.
Ma adesso devo abbinare quel piatto a un testo attraverso la scelta di qualche ingrediente.

Mettiamoci pure che hanno iniziato a girarmi in testa mille idee, mille titoli di libri, una cacofonia di voci di autori diversi che mi urlavano nella testa “scegli me, scegli me!”. Un delirio.
Ho dovuto andare per eliminazione. Ma è stato come tradire degli amici.
Perché io come lettrice sono piuttosto mutevole. Cambio autori e generi a seconda dell’umore. Di quello di cui ho bisogno sentirmi raccontare in quel momento. Ho i periodi, come Picasso. Quando invece non cambio genere da un giorno all’altro. O dalla mattina alla sera.
Comunque, dovevo scegliere un solo testo. E alla fine ho scelto. Un parto.

Innanzi tutto ho scelto il genere che mi rappresenta di più: i diari di viaggio, veri o romanzati ma sempre viaggi in posti il più lontano possibile da qua. E già la dice lunga sul fatto che se potessi vivrei con la valigia in una mano e il biglietto aereo nell’altra.

Dopo questa già notevole selezione, ho dovuto scegliere quale tipo di viaggio: quelli fantastici e romanzeschi di Jules Verne, Salgari, Twain. Quelli crudi, realistici e meditativi dei reportage di Terzani e Lapierre. O quelli sempre realistici ma più zingareschi e spesso goliardici di Bettinelli, Bryson, Roversi e persino Cherubini (nel senso proprio di Jovanotti!)
Poi c’è la questione di scegliere un paese, una zona del mondo piuttosto che un’altra.

Volevo quasi quasi far girare il mappamondo e puntare il dito a caso. Scelto il paese scelto il libro. O almeno avrei dato un’altra bella scrematura.
Poi come sempre mi succede, anche in libreria, è il libro a scegliere me e non il contrario.

Sono stata scelta da “In Patagonia” di Bruce Chatwin e sono ripartita di nuovo con lui in viaggio lungo tutta l’Argentina. Da Buenos Aires fino alla Terra del Fuoco, attraverso la Pampa sconfinata, con gauchos, fattorie sperdute, indios e personaggi incredibili venuti a vivere qui da ogni parte del mondo per i motivi più disparati.

L’Argentina, come l’Uruguay e il Cile, sono un po’ il simbolo dell’esilio, del cambiamento, della ricerca di un’altra vita. Nel dopoguerra molti italiani si sono trasferiti laggiù a cercar fortuna.
Dal mio paesino in provincia di Savona sono partiti in tanti per Buenos Aires o Montevideo. Anche nella mia famiglia. Zii, cugini, parenti alla lontana.
Qualcuno è rimasto li, altri sono ritornati riportando indietro un po’ di quelle atmosfere, almeno nella cucina. Infatti in questo paesino dell’entroterra ligure si conosce bene l’asado, le empanadas, il dulche de leche e naturalmente il matè. O almeno li si conoscevano. Perché venendo a mancare i vecchi legami con quel mondo si stanno perdendo anche i legami con la sua cucina.

Ma io mi ricordo di mia nonna che a merenda mi dava il matè con i biscotti. Anche se lei in Argentina non c’era mai stata. Ma aveva dei parenti li. Ho ancora delle vecchie cartoline.
Invece mio zio, fratello del nonno, in Uruguay ci ha vissuto per molti anni. A casa sua parlavano spagnolo fra loro, anche perché la nuora è uruguayana. Io ero spesso in casa loro, perchè andavo a giocare con la mia cuginetta Silvia, che è mia coetanea. Con me parlavano italiano, ma io sentivo quelle parole, quelle sonorità e quella musicalità e mi è rimasta un po’ dentro. Non ho imparato lo spagnolo, purtroppo, ma ho fatto così tante volte merenda col mate e il dulce de leche che forse mi è rimasta dentro una curiosità e un affetto particolare per il Sud America. Che dall’Argentina e dall’Uruguay si è esteso poi in tutto il continente.

I miei autori preferiti arrivano da li. Non mi perdo un reportage di viaggio da quelle zone.
Adoro tutta la musica e il ballo che provengono da quei luoghi, tango in testa. Ne rimango rapita ogni volta. Non sono ancora riuscita a convincere mio marito a imparare il tango argentino, per ora. Ma l’ho presa alla larga: ho iniziato con i balli caraibici, salsa, bachata, adesso kizomba. Arrivare al tango ormai è un attimo. (Io la butto li!).
Che poi il tango pare sia stato inventato da italiani immigrati. Quindi il cerchio si chiude.

Ritornando a Chatwin, lui si è messo in viaggio attraverso quasi un continente. È stato ospitato in fattorie sperdute nella pampas, ha conosciuto persone dalle storie incredibili e ha raccontato la storia o la leggenda di gauchos, fuori legge, avventurieri. Ha mangiato asado, carne alla brace, in loro compagnia.
Questo è il libro-simbolo dei racconti di viaggio, almeno per me.

Per questo i miei muffins sono dedicati a Chatwin, alla Patagonia, all’Argentina, ma anche all’Uruguay e a mia cugina Silvia, che ora abita li e che magari un giorno riuscirò ad andare a trovare. Avrei potuto preparare i muffins all’asado. Di certo sarebbero stati originali. E non è detto che non ci provi. Ma ho preferito rimanere un po’ più sul classico e riunire nel muffins la bevanda e il dolce simbolo di quei luoghi: mate e dulce de leche.
L’amido di mais e la farina di mais richiama i famosi biscotti argentini, gli Alfajores de
Maicena che sono farciti con questa crema e accompagnano il mate.
Il rum non ha bisogno di spiegazioni: i gauchos nella pampa non bevono mica succhi di frutta!
Il lime l’ho messo perché è una nota di freschezza caraibica che ci sta bene.




 
 
 
 
MUFFINS AL MATÈ E LIME CON DULCHE DE LECHE.

Ingredienti per 12 muffins:
200g farina 00,
100g amido di mais,
50g di farina di mais fioretto,
100g zucchero di canna,
200ml latte,
80g burro morbido,
50 ml di rum chiaro,
2 uova,
2 cucchiai di yerba mate,
1 lime,
8g lievito per dolci,
un pizzico di bicarbonato,
un pizzico di sale.




Fate intiepidire il latte e mettete in infusione un cucchiaio di matè. Lasciate raffreddare e filtrate.
Mescolate in una ciotola le farine con  L'amido, il lievito, il bicarbonato, il sale e il restante mate.
In un’altra ciotola lavorate il burro a crema con lo zucchero e unite le uova, il latte, il liquore, la scorza del lime grattugiata e due cucchiai di succo.
Versate il composto liquido al centro di quello solido e lavorateli velocemente e brevemente per amalgamarli. Deve comunque restare un impasto grumoso.
Riempite i gli stampini imburrati o rivestiti con gli appositi pirottini di carta fino all’orlo.
Infornate a 180° per circa 25 minuti.
Serviteli tiepidi con il dulce de leche e naturalmente una tazza di mate.

 





Potete mettere il dulce de leche anche dentro i muffins, come ripieno. Riempite i pirottini quasi fino all’orlo, mettete mezzo cucchiaino scarso di crema e ricoprite con altro impasto.
La crema tende a scendere in cottura, quindi conviene aggiungerla quasi in superficie (non come ho fatto io …). Infornate come prima.

Non abbiate paura di riempire i pirottini fino all’orlo. L’impasto dei muffins è granuloso e sodo, diverso da quello delle torte montate, e non cola ovunque in cottura. Anzi si gonfia verso l’alto formando la classica cupoletta a fungo tipica dei veri muffins.

 


Dulche de leche.
La storia del dulce de leche è molto carina e come spesso capita riguarda un errore in cucina.
Non sto a raccontarvela altrimenti questo post diventa lungo come “Via col Vento”.
La ricetta è semplicissima, richiede solo un paio d’ore di pazienza o un supermercato più fornito del mio. Comunque si tratta di una confettura di latte e zucchero, cotti lentamente fino ad ottenere la consistenza di una ganache e il colore e il sapore delle caramelle mou.
Ho postato il procedimento QUI.

Yerba Mate
Il Mate, o Maté o Yerba Mate è praticamente un’infusione, una tisana, nonché la bevanda nazionale di questi due paesi. Dicono sia snellente perché ha la proprietà di togliere l’appetito. Con me non ha mai funzionato, nemmeno da piccola, la mia fame è più forte di tutto.
 

 

lunedì 17 novembre 2014

IL DULCE DE LECHE fra leggenda, scienza e ricordi di infanzia.

Il dulce de leche è un dolce tipico dell’Uruguay e dell’Argentina. Anzi è il loro dolce nazionale.
È una crema densa fatta con latte e zucchero, dal colore e dal sapore molto simile a quello delle caramelle mou forse un po’ più delicato.
Viene usato per accompagnare e farcire torte e biscotti, per decorare gelati e semifreddi ma anche semplicemente spalmato sul pane. Un po’ come la nostra Nutella.
La storia, o leggenda, della sua creazione, è molto carina. Come spesso è successo per molte ricette diventate poi un classico nasce da una svista.

Si dice infatti che sia stata la domestica di un caudillo argentino, tale Juan Manuel de Rosas, a dimenticarsi sul fuoco la pentola dove stava preparando la lechada, una bevanda di latte e zucchero. Quando tornò in cucina si era trasformata in una crema marrone molto gustosa.
La paternità di questa crema viene contesa anche dai francesi (e te pareva) che sostengono che sia stato un cuoco di una guarnigione militare in Normandia ad avere lo stesso inconveniente in cucina creando così “la confiture de lait”.
A tagliare la testa al toro ci ha pensato nel 2003 un giornalista argentino che , tradendo un po’ i suoi compatrioti, ha dimostrato che questo Dulce de leche sia in realtà nato in Cile (dove si chiama Manjar) e da li diffuso poi in tutto il Sud America fino in Messico.

Io l’ho conosciuto da piccola, a  casa di zii di papà emigrati per qualche tempo in Uruguay ma poi tornati in Italia. Non ricordo se lo facesse proprio mia zia o Irma, la moglie di nostro cugino o se arrivasse direttamente da laggiù.

In seguito l’ho sempre trovato in versione industriale. Veramente non si trova tanto facilmente. Nemmeno nei negozi di alimenti etnici, perché di solito sono più forniti di ingredienti medio - orientali, al massimo messicani.
E proprio adesso che lo cercavo per poter preparare un paio di dolci argentini che lo prevedono, non se ne vede più nemmeno l’ombra.
Così ho deciso di farlo da sola.

Trovare la ricetta non è stato così difficile. Anche perché io mi sono giocata l’asso nella manica: mia cugina Silvia, con la quale ho trascorso l’infanzia prima che tornasse in Uruguay con i genitori.  Lei è la nipote di quei famosi pro-zii tornati dall’America, di mamma uruguayana e papà italiano, quindi perfettamente bilingue (anzi tri perché parla bene anche l’inglese) e cresciuta con un piede qua e uno la dell’oceano. Adesso vive a Punta dell’Este, ma grazie a internet ci sentiamo spesso. Infatti sono andata direttamente alla fonte a cercare la ricetta.

Però in giro per la blogosfera ho trovato un sito veramente interessante, che non spiega solo ingredienti, dosi e procedimento. Ma anche il perché scientificamente questa ricetta si deve fare in questo modo. Le reazioni chimiche e fisiche che stanno dietro alle tecniche di cottura e preparazione. Per una chimica mancata come me è un invito a nozze.

Il blog si chiama “Scienza in cucina” ed è tenuto da Dario Bressanini, chimico, ricercatoe eautore di molti libri di divulgazione scientifica.
In questo caso spiega il perché della caramellizzazione della crema, perché ci si deve mettere il bicarbonato e perché questo potrebbe far eruttare il latte su tutta la stufa, come si fa per ottenere una crema liscia e omogenea senza ruvidità o grumi, come si fa per farla addensare meglio, perché è meglio usare latte senza lattosio e quali reazioni chimiche ci sono dietro a tutto ciò.
Fantastico. Voi non potete capire il mio grado di esaltazione. Credo che andrò a spulciare tutto il resto del blog, che fa chiarezza fra l'altro su tanti falsi miti legati all'alimentazione.

Per le dosi ho seguito la ricetta che avevo io, ma ho cercato di mettere subito in pratica questi consigli. Cercato. Perché poi come al solito il mio spirito ribelle e empirico (non che pasticcione) ha avuto il sopravvento.
Prof. Bressanini  mi perdoni se può. In fondo le scoperte scientifiche sono avvenute anche per caso, in seguito a errori e distrazioni o intuizioni. La veda così.

Riporto la ricetta originale uruguayana-argentina con in corsivo le modifiche fatte da me sulla linea delle considerazioni del professore.
In fondo ho messo le mie considerazioni finali. Procedimento da vera scienziata!!!

 

 




DULCE DE LECHE.

Per circa 600g di crema:
1lt latte intero (io senza lattosio),
300g zucchero (oppure 270g zucchero e 30g miele),
la punta di un cucchiaino di bicarbonato,
1 bacca di vaniglia (facoltativa, io non l’ho messa),
1 cucchiaino di amido di mais o fecola (facoltativo).

Scaldate il latte con la bacca di vaniglia, scioglietevi lo zucchero e il miele mescolando bene. Portate a bollore, unite il bicarbonato e abbassate il fuoco. Dopo 10 minuti togliete la vaniglia. Cuocete a fuoco moderato per circa 2 ore mescolando spesso. Il latte pian piano si restringerà (si riduce quasi del 50%) addensandosi e acquisterà un colore sempre più ambrato.

Ci vuole pazienza però, perché ci impiega circa 1 ora e mezza prima che inizi ad addensare un pochino. Gli ultimi 15-20 minuti potete alzare la fiamma ma dovete mescolare di continuo.



Alla fine dovete ottenere una crema fluida come la crema inglese e del colore delle caramelle mou. Se vi sembra ancora troppo liquida stemperate un cucchiaino di amido con un cucchiaio di panna o latte senza fare grumi, diluite con un paio di cucchiaini di crema calda e versate tutto nel pentolino. Fate cuocere ancora 10 minuti mescolando.
Tenete conto però che raffreddandosi la crema tende a rassodare molto.



Togliete dal fuoco e fate intiepidire. Versate nei vasetti di vetro da confettura, ben lavati e asciugati. Chiudete col coperchio e fate raffreddare.
Si conserva in frigo per circa 2 settimane.

 


Note:

·         Il latte senza lattosio ha il vantaggio che la crema che si ottiene sia più liscia e vellutata, senza quel sentore granuloso, come di sabbietta che si forma proprio dalla cottura del lattosio con lo zucchero. Ma generalmente si tratta di un latte parzialmente scremato, questo fa si che sia meno grasso (perché è scremato non perché non ha lattosio) e che ci metta un pochino di più ad addensarsi. Questione di 10-15 minuti. Comunque se lo trovate intero è meglio. Magari unite due cucchiai di panna, senza lattosio ovviamente. Ormai si trova abbastanza facilmente.

·         Si può ovviare al problema della “sabbietta”  sostituendo una piccola parte di zucchero con glucosio o con il miele (non più del 15%). Però così il gusto è più marcato, più dolce. Magari scegliete un miele delicato come quello d’acacia. Per non rendere la crema troppo stucchevole potete omettere la vaniglia. Ma questo va a seconda dei gusti, Fate delle prove. Io personalmente preferisco il sapore del Dulce fatto col solo zucchero.

·         L’amido non è indispensabile. Viene usato per lo più nelle preparazioni industriali per rendere la crema più stabile e densa. Potrebbe aiutare nel caso di latte parzialmente scremato o senza lattosio. O se vi serve una crema  molto densa.

·         In quasi tutte le ricette che ho trovato sul web c’è scritto che il composto va assolutamente mescolato per tutto il tempo. Io non l’ho fatto perché sinceramente nel frattempo me ne sono capitate di ogni (telefono che suona nell’altra stanza, figlio con un’ urgenza improrogabile, marito che non trova l’acqua in mare …), posso dire che non si è attaccato per niente. Sarà stata la pentola col fondo molto pesante, sarà stato il fuoco quasi al minimo, sarà stata la fortuna della prima volta. Ma tant’è non ho avuto problemi. Ogni tanto una rimescolata con il cucchiaio di legno e via.
     All’inizio avevo messo il latte in un pentolino antiaderente a bagnomaria (quello che uso per sciogliere il cioccolato) ma ci ha messo una vita solo per raggiungere il bollore anche col fuoco al massimo, così ho travasato tutto in un normale pentolino di alluminio pesante. È andata molto meglio.

·         Probabilmente se avessi tenuto il fuoco un po’ più alto durante la cottura ci avrebbe impiegato meno tempo. Ma credo che sarei dovuta rimanere li a rimestare in continuo.
           Nel mio caso, viste le continue distrazioni è andata meglio così.

 
Ricordo che per saperne di più sui risvolti chimico-fisici della preparazione del Dulce de leche potete andarvi a leggere questo post dal blog “Scienza in cucina”, dove ci sono spiegazioni dettagliatissime al riguardo.

Buenas noches.

mercoledì 12 novembre 2014

BESAN KA CHEELA E RAITA ALLA MENTA PER L’ABC MONDIALE.

Ovvero un gran bel ginepraio.

Non vi capita mai di farvi prendere la mano mentre state navigando in internet e non accorgervi che ci siete stati più del dovuto? Che sono passate addirittura ore?
A me sinceramente non spesso, perché ho sempre i minuti contati ma ogni tanto mi succede.
E quando mi succede perdo davvero la cognizione del tempo.
Mi capita quando sto facendo qualche ricerca su un argomento particolare che però si apre in una serie infinita di approfondimenti, uno più interessante dell’altro.

Di solito le mie ricerche riguardano la cucina. Ovvio.
Nello specifico ieri mi sono messa a cercare qualche ricetta della cucina indiana. Qualcosa che andasse al di là di quei due o tre piatti che già conosco, quelli che sono ormai famosi anche in occidente.  Tanto per imparare qualcosa di nuovo.
Ho avuto la fortuna di incappare in siti interessantissimi che parlano di ricette ma soprattutto di cultura e tradizioni. Non riuscivo più a smettere di leggere.

L’India è un paese così vasto e vario che parlare di un'unica tradizione culinaria sarebbe quantomeno riduttivo.
Anche perché è formata da tanti stati diversi, per lingua, religione, etnia, cultura, sviluppo economico e sociale. Per non parlare l’influenza subita dalle popolazioni straniere con cui questo paese è venuto a contatto nel corso dei secoli, solo per citarne uno: l’Inghilterra.

In pratica mi si è spalancato davanti agli occhi letteralmente un mondo, fatto di grandi similitudini e profonde differenze a seconda delle zone del paese, che io conoscevo solo superficialmente.
Cosa sapevo dell’India? Il riso, le spezie, il pollo tandoori, il chapati o il naan, quei pani che assomigliano alla nostra piada, il curry e poco altro. Ma quanta confusione e approssimazione nelle mie poche informazioni.

Tanto per iniziare “tandoori” non è solo il nome di una pietanza a base di pollo ma è il nome di una specie di forno di terracotta e per senso lato anche del metodo di cottura  e quindi del piatto che ne consegue. Solo che non si cuoce “tandoori” solo il pollo, ma anche il pesce, l’agnello e persino un tipo di pane.

Se poi prendiamo solo la parola CURRY entriamo in un ginepraio di proporzioni bibliche.
Perché per noi il curry è quella polverina giallastra che troviamo ormai anche al supermercato e che si usa per aromatizzare la carne o il pesce, o il riso perché no. Comunque usato ogni volta che vogliamo cucinare qualcosa “all’Indiana”. Beh, no. Dipende.
Il curry è si una miscela di spezie ma è così varia e caratteristica di ogni persona che la prepara che non esiste una vera ricetta. Queste spezie vengono pestate insieme nel mortaio e scaldate in olio o ghee, tipo il burro chiarificato. Viene poi stemperata in yogurt oppure succo di limone o pomodoro.
Questa salsa viene usata per cuocere carne, pesce legumi e verdura. Quindi curry è anche il nome della pietanza.
Vengono poi aggiunte a seconda della ricetta erbe aromatiche, frutta secca, panna o latte di cocco. Tutto questo a seconda se ci troviamo al sud o al nord dell’India, nel Punjab o nel Rajasthan.
E comunque attenzione a non confonderlo col Garam Masala, altra famosa miscela di spezie, che potrebbe assomigliare ma non è. Che è diverso dal Chaat Masala. Altro ginepraio.

Mentre mi addentro nella complessità della cucina indiana ho pensato di iniziare a proporre due piatti semplici e abbordabili al nostro sentire mediterraneo.
Uno è il (o la, boh!) Besan Ka Cheela, sorta di pancakes di farina di ceci (Besan, appunto) arricchiti da vegetali e spezie varie (tantissime) che fa parte della colazione indiana. Non stupiamoci, in fondo negli USA mangiano uova, pancetta e salsicce!

L’altro è il (o la, sempre boh!) Raita. Una salsa a base di yogurt, erbe aromatiche, una o più verdure o frutta e naturalmente spezie (tante). Qualche giorno fa avevo già presentato un Raita di mele e zenzero. Fresco e delicato, come la cucina indiana può esserlo. Stavolta cambio decisamente gusto. I raita sono salsa di accompagnamento.

Tutto questo per partecipare al nuovo ABCCULINARIO MONDIALE, che fino al 16 novembre fa sosta in India, appunto. L’ambasciatrice di questa tappa è Cinzia del blog Cindystarblog.blogspot.it

 

 




 
BESAN KA CHEELA (pancake indiano alla farina di ceci)

Ingredienti per circa 8 pancake piccoli:
200g farina di ceci (Besan),
1 cipolla,
2 peperoncini verdi dolci,
2 cucchiai di foglie di coriandolo fresco o 1 di coriandolo in polvere,
zenzero fresco o in polvere,
peperoncino piccante in polvere,
pepe nero,
mix di spezie secche per il garam masala (di solito cumino, curcuma, cannella, cardamomo, aglio in polvere),
sale,
olio di semi (io extravergine d’oliva),
io ho messo anche 2 cucchiai di prezzemolo tritato.

Tritate finemente la cipolla, i peperoncini verdi privati dei semi e le foglie fresche di coriandolo (nel mio caso prezzemolo).
Setacciate la farina di ceci e idratatela pian piano con circa pari peso di acqua, mettetela a filo pian piano in modo da non formare grumi e mescolate con una piccola frusta. Dovete ottenere una pastella liscia e fluida come quella per le crèpes.
Aggiungete il trito di verdure, il sale e le spezie nella quantità che desiderate.

In India abbondano molto in spezie. Nelle ricette che ho trovato le indicazioni di quantità erano a cucchiaiate, ma il nostro palato (e stomaco) occidentale temo non reggerebbe. Così sono andata avanti aggiungendole una punta di cucchiaino alla volta fino a raggiungere il giusto compromesso tra un gusto delicatamente speziato (ma anonimo, le spezie si devono sentire altrimenti non ha senso) e l’inferno.
Fate riposare la pastella per una mezz’ora.

Scaldate un cucchiaio d’olio in una padella antiaderente dal fondo spesso, versate due cucchiai da tavola di pastella e allargatela. Esattamente come si fa per fare le crespelle o i pancakes. In effetti sono un po’ più spessi delle crespelle.

Accompagnateli con verdure bollite e saltate in padella, chutney di frutta, paneer cioè il formaggio tipico indiano, ma qualsiasi formaggio fresco va bene, e con qualche salsa speziata.
Io li ho serviti con cime di rapa e radicchio spadellati con olio, zucchero aceto balsamico, insieme a mandorle, uvetta e pinoli.

N.B. Mio figlio li ha mangiati con del formaggio fresco spalmabile e glassa all’aceto balsamico. Devo dire che erano buoni anche così. Si potrebbero fare anche piccolini e servirli con pesce affumicato, tipo salmone. Proverò. Magari nelle prossime feste natalizie, come antipasto.



 

RAITA ALLA MENTA, ZENZERO E CIPOLLOTTO.

1 vasetto di yogurt bianco compatto,
5-6 foglie di menta fresca,
1cm di zenzero fresco oppure zenzero in polvere,
2 cipollotti,
curcuma,
sale, pepe nero.

Tritate molto finemente i cipollotti, lo zenzero e la menta. Uniteli allo yogurt. Unite anche mezzo cucchiaino di curcuma e aggiustate di sale e pepe.
Lasciate riposare mezz’ora perché i sapori si amalgamino bene.




 
http://abcincucina.blogspot.it/

 

Se vi va di saperne di più su questa fantastica cucina vi lascio alcuni link da cui ho attinto queste informazioni: