Eccoci
all’appuntamento con l’MTC. Questo
mese vanno in scena i muffins.
Chiamateli
col loro nome di battesimo. Io da ora in poi non mi sbaglierò più.
Vi
confesso che nei miei rigurgiti di fondamentalismo linguistico mi sono sempre
rifiutata di chiamare quei mini dolci col loro nome anglo-americano:“Chiamateli
tortine che diamine. Il nome italiano esiste, usiamolo!”. In quei momenti manca
solo che sventoli il tricolore brandendo un tomo dell’Accademia della Crusca.
In
effetti quei dolci monoporzione che fin’ora preparavo io sono tortine. Come del
resto la maggior parte di quelli che di solito vengono chiamati muffins. Ma
muffins proprio non sono, in quanto il procedimento è chiaramente diverso: le
prime si preparano come una classica torta, ben sbattute, montate e omogenee,
cotte però in stampi monodose; gli altri si preparano lavorando il meno
possibile l’impasto, anzi val bene qualche grumo.
Per
cui se volete pronunciare la parola muffin attenzione che lo siano sul serio,
altrimenti sono tortine. Discorso a parte per quanto riguarda i Cup Cakes, ma
andatevi a leggere il post
dettagliato dell’MTC al riguardo.
Espletato
il mio dovere patriottico, adesso vi posso dire in tutta sincerità che io un
muffin vero non l’ho mai preparato. Per sapere esattamente come si fanno c’è
voluta Francesca che ha scelto
l’argomento della sfida.
Però
non poteva essere così semplice. Ma non siamo mica qui a far la barba alle
cozze!
Nossignori.
Nostra signora delle complicazioni, la regina dell’elemento sorpresa, la
sacerdotessa degli imprevisti e possibilità che neanche al Monopoli, cioè Alessandra,
ci ha messo lo zampino e ha richiesto che questi muffins fossero ispirati a un
testo letterario, libro, poesia, canzone che in qualche modo ci rappresenti o
che ci ha colpiti.
“Ma
è una figata pazzesca!” Ho detto subito io.
“Oh
mammamia adesso che faccio?” Ho pensato subito dopo.
Perché
se il connubio libri-cucina è la quintessenza e la ragione effettiva del mio
blog, un conto è abbinare un piatto qualunque che ricordi un libro o il suo
autore, fin li è stato facile: J.Amado=cucina brasiliana, P.D.James=cucina
inglese, eccetera.
Ma
adesso devo abbinare quel piatto a un testo attraverso la scelta di qualche
ingrediente.
Mettiamoci
pure che hanno iniziato a girarmi in testa mille idee, mille titoli di libri,
una cacofonia di voci di autori diversi che mi urlavano nella testa “scegli me,
scegli me!”. Un delirio.
Ho
dovuto andare per eliminazione. Ma è stato come tradire degli amici.
Perché
io come lettrice sono piuttosto mutevole. Cambio autori e generi a seconda
dell’umore. Di quello di cui ho bisogno sentirmi raccontare in quel momento. Ho
i periodi, come Picasso. Quando invece non cambio genere da un giorno
all’altro. O dalla mattina alla sera.
Comunque,
dovevo scegliere un solo testo. E alla fine ho scelto. Un parto.
Innanzi
tutto ho scelto il genere che mi rappresenta di più: i diari di viaggio, veri o
romanzati ma sempre viaggi in posti il più lontano possibile da qua. E già la
dice lunga sul fatto che se potessi vivrei con la valigia in una mano e il
biglietto aereo nell’altra.
Dopo
questa già notevole selezione, ho dovuto scegliere quale tipo di viaggio:
quelli fantastici e romanzeschi di Jules Verne, Salgari, Twain. Quelli crudi,
realistici e meditativi dei reportage di Terzani e Lapierre. O quelli sempre
realistici ma più zingareschi e spesso goliardici di Bettinelli, Bryson,
Roversi e persino Cherubini (nel senso proprio di Jovanotti!)
Poi
c’è la questione di scegliere un paese, una zona del mondo piuttosto che
un’altra.
Volevo
quasi quasi far girare il mappamondo e puntare il dito a caso. Scelto il paese
scelto il libro. O almeno avrei dato un’altra bella scrematura.
Poi
come sempre mi succede, anche in libreria, è il libro a scegliere me e non il
contrario.
Sono
stata scelta da “In Patagonia” di Bruce Chatwin e sono ripartita di nuovo
con lui in viaggio lungo tutta l’Argentina. Da Buenos Aires fino alla Terra del
Fuoco, attraverso la Pampa sconfinata, con gauchos, fattorie sperdute, indios e
personaggi incredibili venuti a vivere qui da ogni parte del mondo per i motivi
più disparati.
L’Argentina,
come l’Uruguay e il Cile, sono un po’ il simbolo dell’esilio, del cambiamento,
della ricerca di un’altra vita. Nel dopoguerra molti italiani si sono
trasferiti laggiù a cercar fortuna.
Dal
mio paesino in provincia di Savona sono partiti in tanti per Buenos Aires o
Montevideo. Anche nella mia famiglia. Zii, cugini, parenti alla lontana.
Qualcuno
è rimasto li, altri sono ritornati riportando indietro un po’ di quelle
atmosfere, almeno nella cucina. Infatti in questo paesino dell’entroterra
ligure si conosce bene l’asado, le empanadas, il dulche de leche e naturalmente
il matè. O almeno li si conoscevano. Perché venendo a mancare i vecchi legami
con quel mondo si stanno perdendo anche i legami con la sua cucina.
Ma
io mi ricordo di mia nonna che a merenda mi dava il matè con i biscotti. Anche
se lei in Argentina non c’era mai stata. Ma aveva dei parenti li. Ho ancora
delle vecchie cartoline.
Invece
mio zio, fratello del nonno, in Uruguay ci ha vissuto per molti anni. A casa
sua parlavano spagnolo fra loro, anche perché la nuora è uruguayana. Io ero
spesso in casa loro, perchè andavo a giocare con la mia cuginetta Silvia, che è
mia coetanea. Con me parlavano italiano, ma io sentivo quelle parole, quelle
sonorità e quella musicalità e mi è rimasta un po’ dentro. Non ho imparato lo
spagnolo, purtroppo, ma ho fatto così tante volte merenda col mate e il dulce
de leche che forse mi è rimasta dentro una curiosità e un affetto particolare
per il Sud America. Che dall’Argentina e dall’Uruguay si è esteso poi in tutto
il continente.
I
miei autori preferiti arrivano da li. Non mi perdo un reportage di viaggio da
quelle zone.
Adoro
tutta la musica e il ballo che provengono da quei luoghi, tango in testa. Ne
rimango rapita ogni volta. Non sono ancora riuscita a convincere mio marito a
imparare il tango argentino, per ora. Ma l’ho presa alla larga: ho iniziato con
i balli caraibici, salsa, bachata, adesso kizomba. Arrivare al tango ormai è un
attimo. (Io la butto li!).
Che
poi il tango pare sia stato inventato da italiani immigrati. Quindi il cerchio
si chiude.
Ritornando
a Chatwin, lui si è messo in viaggio attraverso quasi un continente. È stato
ospitato in fattorie sperdute nella pampas, ha conosciuto persone dalle storie
incredibili e ha raccontato la storia o la leggenda di gauchos, fuori legge,
avventurieri. Ha mangiato asado, carne alla brace, in loro compagnia.
Questo
è il libro-simbolo dei racconti di viaggio, almeno per me.
Per
questo i miei muffins sono dedicati a Chatwin, alla Patagonia, all’Argentina,
ma anche all’Uruguay e a mia cugina Silvia, che ora abita li e che magari un
giorno riuscirò ad andare a trovare. Avrei potuto preparare i muffins
all’asado. Di certo sarebbero stati originali. E non è detto che non ci provi.
Ma ho preferito rimanere un po’ più sul classico e riunire nel muffins la
bevanda e il dolce simbolo di quei luoghi: mate e dulce de leche.
L’amido
di mais e la farina di mais richiama i famosi biscotti argentini, gli Alfajores
de
Maicena
che sono farciti con questa crema e accompagnano il mate.
Il
rum non ha bisogno di spiegazioni: i gauchos nella pampa non bevono mica
succhi di frutta!
Il
lime l’ho messo perché è una nota di freschezza caraibica che ci sta bene.
MUFFINS AL MATÈ E LIME CON
DULCHE DE LECHE.
Ingredienti
per 12 muffins:
200g
farina 00,
100g
amido di mais,
50g
di farina di mais fioretto,
100g
zucchero di canna,
200ml
latte,
80g
burro morbido,
50
ml di rum chiaro,
2
uova,
2
cucchiai di yerba mate,
1
lime,
8g
lievito per dolci,
un
pizzico di bicarbonato,
un
pizzico di sale.
Fate
intiepidire il latte e mettete in infusione un cucchiaio di matè. Lasciate
raffreddare e filtrate.
Mescolate
in una ciotola le farine con L'amido, il lievito, il bicarbonato, il sale e il
restante mate.
In
un’altra ciotola lavorate il burro a crema con lo zucchero e unite le uova, il
latte, il liquore, la scorza del lime grattugiata e due cucchiai di succo.
Versate
il composto liquido al centro di quello solido e lavorateli velocemente e
brevemente per amalgamarli. Deve comunque restare un impasto grumoso.
Riempite
i gli stampini imburrati o rivestiti con gli appositi pirottini di carta fino
all’orlo.
Infornate
a 180° per circa 25 minuti.
Serviteli
tiepidi con il dulce de leche e naturalmente una tazza di mate.
Potete
mettere il dulce de leche anche dentro i muffins, come ripieno. Riempite i
pirottini quasi fino all’orlo, mettete mezzo cucchiaino scarso di crema e
ricoprite con altro impasto.
La
crema tende a scendere in cottura, quindi conviene aggiungerla quasi in
superficie (non come ho fatto io …). Infornate
come prima.
Non
abbiate paura di riempire i pirottini fino all’orlo. L’impasto dei muffins è
granuloso e sodo, diverso da quello delle torte montate, e non cola ovunque in
cottura. Anzi si gonfia verso l’alto formando la classica cupoletta a fungo
tipica dei veri muffins.
Dulche de leche.
La storia del dulce de
leche è molto carina e come spesso capita riguarda un errore in cucina.
Non sto a raccontarvela
altrimenti questo post diventa lungo come “Via col Vento”.
La ricetta è
semplicissima, richiede solo un paio d’ore di pazienza o un supermercato più
fornito del mio. Comunque si tratta di una confettura di latte e zucchero,
cotti lentamente fino ad ottenere la consistenza di una ganache e il colore e
il sapore delle caramelle mou.
Ho postato il procedimento
QUI.
Yerba Mate
Il Mate, o Maté o Yerba
Mate è praticamente un’infusione, una tisana, nonché la bevanda nazionale di
questi due paesi. Dicono sia snellente perché ha la proprietà di togliere
l’appetito. Con me non ha mai funzionato, nemmeno da piccola, la mia fame è più
forte di tutto.