Anche il 25 aprile è passato.
Qui da me il tempo era pessimo, quindi niente
scampagnata o pic-nic sui prati. Nemmeno una passeggiatina all’aria aperta.
Niente. Solo una nebbiolina che rendeva tutto umido e freddo.
Così la giornata è passata in totale pigrizia.
Quasi, perché in realtà mi sono dedicata a preparare
dei biscotti. La cosa ha richiesto più di un tentativo e ancora non sono
soddisfatta. Ma non demordo.
L’ho letto già qualche
mese fa, veramente, ma mi è tornato in mente in questi giorni e sono andata a
riprenderlo. Perché meritava di essere riletto proprio in questo momento.
Proprio perché ieri era il 25 aprile e non è una data
qualsiasi. Non è solo un giorno di festa per stare a casa da scuola e dal
lavoro. Il giorno della gita fuori porta con gli amici.
Il 25 aprile è il giorno della Liberazione dal nazismo
e fascismo, della fine della Seconda Guerra Mondiale. Il giorno per ricordare
che quello che adesso ci sembra ovvio e scontato, una volta non lo era affatto.
Che la libertà che abbiamo, anche di non essere d’accordo e contestare, ci è
stata regalata al prezzo di tanti sacrifici. Di lotte, di resistenza, di
sofferenza, di atti di coraggio. Queste storie le possiamo leggere ancora negli
occhi dei nostri nonni, che le hanno vissute. Vale la pena ascoltarle. Ma non
solo in questa giornata, ogni giorno è buono per non dimenticare quello che è
stato. Magari così si evita che succeda di nuovo.
Il libro in questione si intitola “IL CORAGGIO DI ANGELA” (di Sarah Cogne,
ed Araba Fenice).
Angela è una bambina che vive tra le montagne di
Frabosa Soprana, in una malga, una fattoria di montagna, con la sua famiglia.
La storia inizia alla fine dell’ottocento e racconta la vita di questa bambina
e della sua famiglia. Le loro difficoltà quotidiane e il coraggio di
affrontarle sempre con dignità.
Ma la storia di Angela, nel suo piccolo paese di
montagna, si intreccia con la Storia con la S maiuscola: la Prima Guerra
Mondiale, il ventennio fascista, il nazismo, la Seconda Guerra Mondiale. Perché
nessuno era al di fuori, protetto, nascosto da queste cose.
Tante vicende, belle o terribili, hanno vissuto
Angela, i suoi fratelli e i suoi figli.
Il libro termina proprio con la fine della Seconda
Guerra Mondiale, a ridosso di questo 25 aprile che abbiamo appena festeggiato.
Termina con persone care perse, ritrovate, qualcuna cambiata profondamente. Forse
più di una, o tutte, perché la guerra lascia sempre un segno.
Questo è solo un romanzo, sebbene sia ambientato in un
paese reale, Frabosa Soprana, che conosco bene. Per questo non ho esitato a
leggerlo. Per la curiosità di ritrovare luoghi che frequento abitualmente.
Quella baita, quella seggiovia, la scuola elementare al centro del paese, la
chiesa, le piccole frazioni di poche case, le malghe, i pascoli.
Ma poi mi sono immersa nella vicenda e i luoghi
specifici hanno perso la loro importanza. La stessa storia poteva essere
ambientata in qualsiasi paesino di montagna italiano, nelle Alpi come
nell’Appennino e sarebbe stato credibile lo stesso.
Mi piacerebbe sapere se queste vicende sono davvero
frutto della fantasia dell’autrice o c’è qualcosa di vero. Magari una serie di
fatti che ha sentito raccontare qua e là e che ha poi collegato in un unico
racconto. Ma forse non è importante nemmeno questo. Che siano immaginati o
realmente accaduti sono comunque raccontati in maniera credibile e
appassionante.
Ora devo leggere il seguito. Perché la storia di
Angela non si ferma. C’è la figlia Maddalena, la nipote Emma. Tante cose ancora
da sapere. Tanta Storia da raccontare. E se è ben raccontata come questa non
esiterò ad andare avanti.
Nell’attesa di leggere il secondo libro mi sono
permessa di dedicare una ricetta a questo.
Un dolce caratteristico di queste zone. Sono le paste
di Meliga, tipiche delle vallate intorno a Mondovì. Sono biscotti friabili
fatti con farina di mais, detta meliga in dialetto.
Una volta venivano fatte da tutte le massaie, non
potevano mai mancare sulla tavola della domenica. Le ricette quindi sono
infinite, sebbene poi alla fine siano tutte simili.
Anche perché gli ingredienti sono sempre quelli:
farina di mais fine (quella che non veniva usata per la polenta e che quindi
doveva essere impiegata per altro), farina bianca (poca perché era troppo
costosa), zucchero o forse miele, burro di malga ovviamente e uova fresche.
Si trovano comunemente in tutte le panetterie e pasticcerie
della vallata. Sono anche diventate presidioSlow Food. Dove però non viene indicata una ricetta precisa, ma indicazioni
di massima sul fatto che la farina di mais deve prevalere su tutti gli altri
gusti e consistenze.
Tradizionalmente sono accompagnate dallo zabaione, ma
anche un bicchierino di moscato o dolcetto ha il suo perché. O qualsiasi crema
dolce e goduriosa che vi venga in mente. La classica crema spalmabile alla
nocciola, per esempio, di qualsiasi marca volete, per me è semplicemente
perfetta.
Pare che persino Cavour fosse solito finire il pasto
con un paio di paste di meliga e un bicchierino di Barolo chinato. Non so se
sia vero, ma non lo trovo così improbabile.
Questa ricetta è frutto di numerose ricerche sia sul
web che presso varie fonti più “fisiche”: per lo più le signore del paese e
qualche panettiere ben disposto.
Ma come accennavo le ricette sono tante e tutte
diverse. C’è chi mette più farina di mais, chi addirittura non usa per niente
la farina bianca. Chi usa uova intere o solo tuorli. Chi mette il miele, chi la
scorza di limone. Chi fa la frolla normale e chi quella montata.
Devo dire che quest’ultima è forse quella più comune,
anche perché nelle pasticcerie e panetterie questi biscotti hanno tutti la
stessa forma e rigatura tipica delle sac à poche. Ma non so se anticamente
fossero davvero così o piuttosto simili a normali biscotti.
Comunque sia ho voluto provarci.
Sono partita dalla comune frolla montata e ho
sostituito gran parte della farina bianca con quella di mais.
Il primo tentativo è stato un vero disastro. La pasta
era morbida e ben montata, quando l’ho spremuta con la sacca da pasticceria ho
creato forme perfette. Ma quando ho infornato la prima teglia mi si sono
afflosciate perdendo completamente la forma e diventando delle cialde tipo
lingue di gatto. L’ho anche fatte colorire troppo.
Allora ho messo la seconda teglia in frigo per un’ora
circa, anche più, pensando che in questo modo avrebbero mantenuto la forma. Ma
in cottura non è andata molto meglio. Almeno non erano bruciacchiate.
Ho rifatto un secondo impasto, rivedendo un po’ le
ricette che avevo, tutte per’altro contraddittorie, sia nella proporzione degli
ingredienti che nei tempi e temperature di cottura.
Questa volta ho aumentato un po’ la dose delle farine
a discapito del burro e ho usato un uovo più piccolo. L’impasto era decisamente
più sodo e ho fatto fatica a spremerlo con la sacca, infatti le forme non sono
perfette. Ma questa volta il risultato è più simile a quello delle paste che si
comprano in pasticceria. Non ancora perfette. Ma ci arriverò.
Paste
di Meliga monregalesi (o quasi).
130g farina di mais fioretto,
100g farina bianca 00,
100g zucchero,
100g burro,
1 uovo medio (circa 50g),
scorzetta di ½ limone grattugiata,
la punta di un cucchiaino di lievito per dolci
(facoltativo, io non l’ho messo),
un pizzico di sale.
Lavorate il burro molto morbido con lo zucchero, le
uova, la scorzetta di limone e il pizzico di sale fino ad ottenere una crema
morbida. Io ho usato il mixer con le lame di plastica per impastare. Unite 2/3
delle farine, poche alla volta, e incorporatele bene.
Versate l’impasto in una ciotola e incorporate il
resto della farina con una spatola. Dovete ottenere un composto omogeneo,
morbido ma sodo, non molle e appiccicoso. Se occorre unire pochissima farina
00.
Mettete il composto nella tasca da pasticcere con la
bocchetta a stella e ricavate tanti biscotti a ciambella del diametro di circa
7 cm. Oppure potete farli anche rettangolari, lunghi circa 8-10cm, facendo 2-3
strisce di impasto attaccate fra loro.
Fate scendere l’impasto direttamente sulla placca
coperta con carta forno, un po’ distanziate fra loro. Mettete le teglie in
frigo per almeno un’ora.
Infornate a 180°C per circa 10 minuti, a forno
ventilato, così si asciugano in fretta e non si allargano troppo. Devono essere
leggermente dorate e croccanti.
Tiratele fuori appena iniziano a prendere colore,
anche se vi sembrano molli. Tendono a colorarsi in fretta, soprattutto sotto.
Fatele raffreddare senza toccarle altrimenti si
rompono.
Si conservano per qualche giorno chiuse in un
contenitore ermetico.
Metodo
veloce: se non avete la tasca da pasticceria, potete usare
un sacchetto di plastica per alimenti, tagliate via una punta laterale formando
un’apertura di circa 1,5cm e spremete dei cordoncini lisci. Formate cerchi, S,
bastoncini, a piacere. Poi li appiattite leggermente e li rigate premendo con i
rebbi di una forchetta.
Potete anche far raffreddare per 30 minuti la pasta in
frigo, avvolta nella pellicola, e poi creare i cordoncini con le mani.
Proseguite come sopra.
Sono soddisfatta soprattutto del gusto, perché la
farina di mais si sente bene sotto i denti, non prevarica il gusto del burro e
il limone è delicato.
Ho trovato però un’altra ricetta dove c’è molto meno burro
e più uova. Proverò prossimamente anche questa.
sono buonissimi Manuela, tutto belle, il libro...le foto...un bacione
RispondiEliminasimona
mi segno il titolo del libro e rubo un biscottino!
RispondiEliminabuona settimana
Alice
E' da un bel po' che vorrei provare a fare le paste di meliga ma anch'io sono sempre stata scoraggiata dalla difformità delle ricette che si trovano in giro. Alla fine mi pare che la versione più ricorrente sia un "tant pour tant", molto simile a quella che ci proponi. Di certo l'aspetto invoglia non poco all'assaggio!
RispondiEliminaUn libro che deve essere davvero bello. Lo prenderò!
RispondiEliminaMai fatte le paste di meliga, ma conosco la loro bontà. Segno la tua ricetta per tenere conto degli accorgimenti che hai fatto.
Ciao e buona giornata.
Ciao tesoro, sono un po' assente in questo periodo ma questa ricetta non potevo proprio perdermela :-) Ho l'acquolina in bocca :-P
RispondiEliminaBuon we e a presto <3